PER TUTTO
L’ORO DEL MONDO
E’ tutto
maledettamente complicato nella vita dell’Alligatore, al secolo Marco Buratti, tranne
il blues, “musica del diavolo” e balsamo per l’anima. La nuova indagine è tutta
un “vidiri e svidiri” direbbe il maestro
Camilleri. Nel senso che (quasi) niente è come appare: il crimine ha contorni ambigui,
labili e sfuggenti, ma è una metastasi che s’è mangiata la polpa del ricco e
corrottissimo Nord Est. E il nuovo amore è solo un annuncio d’infelicità
programmata: Cora, la donna di jazz che per sfuggire all’accidiosa, tossica
monotonia di un matrimonio fallito si esibisce al Pico’s Pub in abito corto
verde e scarpe di vernice col tacco, è una vertigine dei sensi destinata a
lasciare sul cuore una cicatrice spessa così. Già, il cuore. Bussola unica e
insostituibile per Buratti e i suoi due soci: il grandioso, immarcescibile,
incommensurabile Beniamino Rossini, e Max la Memoria, irrimediabilmente perso
dietro i suoi patemi d’adipe e d’amore, sempre in grado però di piazzare il
guizzo risolutivo, grazie al monumentale archivio e all’arma letale delle
“connessioni logiche”. Il caso stavolta
parte da una rapina in villa, da due morti, da un cliente di soli 12 anni,
Sergio, e da un anticipo di 20 cent. Ma a muovere ogni cosa è l’inesausta,
inappagabile sete di giustizia che pompa sangue al “cuore fuorilegge” della più
dannata squadra di investigatori privati della scena noir contemporanea. L’Alligatore,
Max e il vecchio Rossini si muovono su un terreno limaccioso, e il piano
inclinato di questa storia di oro rubato e vendette private fa rotolare a valle
tutta la melma di cui è impastata l’odierna antropologia di un pezzo d’Italia
che per prima ha scoperto la globalizzazione economica senza limiti né regole,
e per prima l’ha trasformata in globalizzazione criminale negli anni della
grande crisi (ma i due processi, è questa l’amara consapevolezza che trapela
hanno proceduto parallelamente). Un territorio che sulle proprie fobie e su
pregiudizi inveterati ha costruito un nuovo, precarissimo modo di vivere, tra
tribuni law and order marci fino al
midollo, folle imbastardite, pulsioni che un tempo avremmo definito
inconfessabili e oggi sono sfrontatamente sbandierate, esibite. Al punto di
diventare programma politico. Su tutto domina come sempre il dio denaro,
l’arricchimento facile che fa strage di innocenti. Non fosse per i nostri tre
eroi chandleriani, maledetti, non ci sarebbero puri di cuore, nel mondo – assai
realistico – che Carlotto descrive. Preoccupandosi, come al solito, di fare a
pezzi story telling rassicuranti e talvolta lacrimose per raccontarci, con la
solita dovizia di particolari storici e sociologici diluiti nell’inimitabile impasto
narrativo, il grande fenomeno carsico degli anni correnti. La velocissima
discesa verso gl’inferi del crimine di interi pezzi di società “normale”. Senza
farci la morale sulla banalità del male, anzi senza farci alcuna morale, Carlotto
ci porta per mano lungo questo percorso di dannazione. Ed è un precipitare
senza rete, un viaggio nel malessere profondo del Paese, o della parte
descritta come la più avanzata, di sicuro quella economicamente più progredita,
di esso. Oltre la gangster story, oltre i canoni classici del giallo e del
noir: la destrutturazione dei generi proietta Carlotto (anche se lui non lo
ammetterà mai) nella letteratura d’impegno tout
court. Quella che attraverso la finzione ci spiega la realtà in repentino
mutamento, tra ciclopiche bevute di Calvados, overdose di blues, amour fou, nuove paure e vecchi incubi.
Come quello che si materializza nell’epilogo a sorpresa, che non ha un volto,
ma un nome e cognome che ai “carlottiani” doc fanno tremare le vene dei polsi.
Giorgio Pellegrini. Ovvero, il Male. Ma questa è già un’altra storia, un’altra
avventura che, archiviato l’ultimo caso, ci scaraventa nella febbrile dimensione
dell’attesa.
Massimiliano Amato
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